La crisi economica e la rinuncia alla proprietà
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La dilagante crisi economica e la forte pressione fiscale hanno dato la stura ad un vecchio istituto datato 1865: la rinuncia alla proprietà.
Si tratta di un negozio giuridico unilaterale di dismissione del diritto: può essere effettuato rivolgendosi ad un notaio, che redige atto pubblico o scrittura privata autenticata, al fine di consentirne la trascrizione nei pubblici registri.
Non sempre, infatti, (ed ecco la ragione della riemersione dell’istituto giuridico) acquisire un nuovo bene immobile (o gestire diverse proprietà, sedimentate nel tempo) si rivela un miglioramento patrimoniale: si pensi alla ricezione in donazione di un bene fatiscente, che ha l’unico effetto di aumentare sensibilmente la pressione fiscale, senza aver alcuna utilità né alcuna realistica possibilità di cessione.
È prevista, in questo e altri casi similari, la possibilità di accedere all’istituto della rinuncia abdicativa della proprietà ed estinguere il relativo diritto.
La “ratio” della norma sta nella definizione stessa di proprietà: il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo del bene.
Come diceva Hottman nel suo famoso “Commentarius”: la proprietà è il diritto “re quapiam tum utendi, tum abutendi” (ossia di usare e abusare della cosa) “quatenus iure civili permittitur” (nei limiti stabiliti dall’ordinamento).
Rinunciare alla proprietà va intesa come la massima espressione del potere di disposizione, di uso e abuso del diritto, che compete al titolare della situazione giuridica descritta.
Il non-uso (nel senso della rinuncia all’uso) è, pur sempre, una forma di utilizzo della cosa.
Ad essere rinunciabili sono solamente i diritti disponibili (tra cui, per l’appunto, la proprietà); non lo sono,invece: i diritti della personalità, il diritto alla retribuzione, il diritto alle ferie…
Una volta dismesso, per rinuncia abdicativa, il bene non può connotarsi della qualifica di “res nullius”; è, pertanto, prevista l’acquisizione, a titolo originario, in capo allo Stato.
La natura puramente abdicativa e non traslativa della rinuncia esclude, tra l’altro, la necessità di un’accettazione da parte dello Stato: l’acquisto non avviene per effetto di un negozio giuridico, ma come conseguenza automatica prevista dall’ordinamento.
Più interessante, anche se con maggiori profili di dubbio, sembra essere, invece, la “rinuncia della quota di comproprietà indivisa”.
La sua ammissibilità è logico corollario della previsione della rinuncia alla proprietà, da parte del singolo proprietario.
D’altronde non si spiegherebbe perché il pieno e unico proprietario possa rinunciare al suo diritto, mentre il comunista( cioè il proprietario, pro quota, di un bene comune) non possa farlo.
Quest’ultima forma di dismissione prevede un ulteriore effetto: l’estinzione delle obbligazioni insorte e “insorgenda” relative alla proprietà.
Viene, perciò, definita rinuncia “liberatoria” (oltre che abdicativa).
In questo caso, la quota oggetto di dismissione non spetta allo Stato; ma accresce, automaticamente e proporzionalmente, la quota dei condividenti.
Vediamo un esempio.
Tizio, Caio, Sempronio e Mevio hanno, ciascuno, il 25% di un terreno, suddiviso in lotti.
Tizio, per motivi fiscali, rinuncia alla sua quota. Automaticamente la quota di ciascuno dei 3 condividenti citati (Caio, Mevio e Sempronio), si accrescera’ (dal 25% al 33%).
La proprietà è infatti un concetto “elastico”: compressa nella sua suddivisione in 4 componenti, vede riespandere, in automatico, la sua forma nel momento in cui uno dei comunisti venga meno.
L’unico profilo di dubbio e di disputa dottrinale riguarda il c.d. “principio di intangibilita’ della sfera giuridica del terzo”: Caio potrebbe, ad esempio, non voler un aumento della sua quota ma rimanere nel suo stato consolidato.
L’ordinamento non accorda tutela a Caio: questi potrà, al più, rinunciare anch’esso all’intera quota; ma non rifiutare la sola parte accresciuta.
Il principio generale di intangibilita’ prevede, invece, che ogni qualvolta si incida nella sfera giuridica del terzo (si pensi, paradigmaticamente, ai casi di contratto a favore di terzo o ai legati testamentari) si debba garantire la possibilità di rifiutare il diritto che si intende concedere, anche se esso sia migliorativo della sfera del ricevente.
Anzitutto, come visto, non è detto che la donazione di un immobile possa sempre risultare (specie in un momento di crisi economica) un vantaggio, un “effetto migliorativo”; resta, ad ogni modo, nel contratto a favore di terzo, la possibilità di rifiutare l’acquisto: sia esso un vantaggio, sia esso un nocumento.
Nella dismissione della proprietà della quota indivisa, questo non accade: come detto, il condividente vede aumentare la sua quota senza alcuna possibilità di rifiutarla; l’unica alternativa sarebbe quella di abdicare all’intera quota (quella risultante dalla porzione iniziale, aumentata della “parte” di rinuncia del condividente).
Ultimo aspetto da analizzare è la qualificazione giuridica del vantaggio, “par ricochet”, di tutti gli altri comproprietari.
L’impoverimento del rinunciante e il conseguente arricchimento dei condividenti, seppur non connotato da spirito di liberalità (c.d. animus donandi) costituisce, comunque, una forma di donazione in via indiretta, che,perciò, non necessita della forma solenne dell’atto pubblico.
Si applica, ad ogni modo, la disciplina sostanziale della donazione e quindi gli istituti della riduzione e della collazione (non l’azione di restituzione contro i terzi aventi causa poiché si tratta si’ di una liberalità, ma nella forma indiretta).
AVV. MAURO CASILLO