La certezza del diritto
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Il diritto è la clinica dei casi.
Il caso è il fatto brutale epurato dai rilievi storici.
Il diritto non si interessa dei fatti, questi hanno una storicità irripetibile; quando un’idea giuridica sussume un fatto (irrilevante per il diritto) in uno schema, si ha una norma.
Le norme sono attraversate dai principi, astrazioni valoriali poietiche che si applicano ad una serie indefinita di casi (“Gnoseologia della fattispecie” , Orlandi).
Il fatto storico che Tizio versi una somma di denaro a Caio, come anticipo di un contratto di compravendita,stipulando convenzionalmente che tale importo sia liquidato come risarcimento del danno, in via forfettaria, in caso di inadempimento dell’altra parte, diventa un “caso” quando applico a questo fatto un’idea giuridica (“noema“ la definirebbero i pensatori dell’altro millennio ) che la sussume a “caparra confirmatoria”.
È di palmare evidenza che non esiste in natura tale istituto, ma che è uno schema giuridico.
L’autonomia contrattuale riservata ai privati, concede loro di determinare tale clausola pattiziamente e sottostare alla disciplina prevista, per essa, dal codice.
Qui entra in gioco la certezza del diritto: l’art 1385 c. c. garantisce che: “se al momento della conclusione del contratto una parte dà all’altra, a titolo di caparra, una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di inadempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.
Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra”.
L’attribuzione patrimoniale del doppio, in particolare, è stata oggetto di attenzione della dottrina e della giurisprudenza.
Tizio versa 40 mila euro a titolo di caparra a Caio,il quale promette di vendergli un bene del valore di 100 mila euro. Caio non adempie. Tizio chiede 80 mila euro, esigendo il doppio della caparra, come da Codice, a titolo di risarcimento del danno.
Traspare, però, un sentore di ingiustizia.
Sono forse troppi 80 mila euro, ma il vincolo pattizio è indissolubile e la norma è chiara.
La Consulta (metonimia della Corte Costituzionale), giudice di legittimità, investita del caso ha decretato, in modo tranciante, la nullità di tale clausola.
Nel “leading case” di un paio di decenni fa, presso il Tribunale di Tivoli, la sollevata questione di legittimità costituzionale riguardava la violazione del principio di uguaglianza, ex art. 3 Cost., stante la sproporzione risarcitoria descritta; la Consulta ha affermato la violazione di principi imperativi(nella specie quello di solidarietà, in combinato con la clausola generale di buona fede) dichiarando la nullità dell’obbligazione attributiva del doppio della caparra, per violazione di principio imperativo (parafrasando il codice che all’art. 1418c.c. co 1, parla di nullità virtuale per contrarietà a” norma imperativa”).
Il principio ha vinto sulla norma.
L’affermazione valoriale di solidarietà tra consociati è più forte di una disposizione normativa.
Si perde, però e inevitabilmente, la certezza del diritto.
Sull’altare degli interessi giuridici, far prevalere un principio (pur di indubbio valore etico) sulla norma, comporta perdere “rigore”.
Ma vi è una seconda via. Come sancito, in diverse pronunce dalla Corte di Cassazione, è possibile scandagliare l’intero sistema giuridico e applicare analogicamente (secondo alcuni “direttamente”) la norma sulla riduzione ad equità della “clausola penale” ( ex art. 1384c.c.) alla fattispecie della caparra confirmatoria.
Così facendo si rimarrà dentro quella “prigione ermeneutica” che è lo ius.
La ratio è che (si scusi il formalismo bieco) una caparra confirmatoria per inadempimento, altro non è che una clausola penale: ossia una liquidazione convenzionale anticipata del danno da inadempimento, in via forfettaria.
Se il consociato si aspetta che una situazione giuridica soggettiva di cui dispone sia regolata dalla stringente norma di legge e non da un evanescente principio, applicando analogicamente la disposizione sulla clausola penale alla caparra si “stressa”, per così dire, il dato normativo e lo si estende ad un‘altra fattispecie affine, garantendo la certezza del diritto.
Si trova, infatti, in questo modo, la soluzione all’interno del diritto positivo senza scomodare i principi.
Interessante, poi, una terza tesi, seppur minoritaria, che vede nella attribuzione patrimoniale del doppio della caparra, un danno punitivo.
Il danno è la lesione di un interesse giuridicamente protetto che causa una perdita.
Per quel che interessa ai fini della presente trattazione, il risarcimento del danno (indemnitas) è la valutazione della diminuzione patrimoniale (deminutio patrimonii) data dalla somma tra la stima del bene danneggiato (rei aestimatio) e l’insieme delle utilità che il soggetto avrebbe conseguito se il fatto dannoso non si fosse verificato (id quod interest) che consistono non solo nel danno emergente ma anche nel lucro cessante( constat non solum ex damno dato, sed etiam ex lucro cessante).
Una posta risarcitoria che preveda una attribuzione patrimoniale esorbitante il ripristino dello status quo ante è nulla, in quanto priva di causa.
Il principio (legato al dato positivo, stavolta) è il “Nemo potest locupletari cum aliena iactura”, che punisce un arricchimento ingiustificato.
Accanto alla descritta funzione risarcitoria del danno vi è però una corrente d’oltreoceano che parla anche di una funzione sanzionatoria:una porzione ulteriore di risarcimento, oltre quella reintegratoria, che sia punitiva e stigmatizzante.
La causa del pagamento del doppio potrebbe essere, dunque, il c.d. “danno punitivo”.
Ma ad una analisi organica dell’ordinamento civile si nega l’esistenza di un‘altra funzione del danno oltre quella ripristinatoria,nonostante vi siano alcuni indici presuntivi che ne paventino l’introduzione (si pensi paradigmaticamente alla
“lite temeraria” ex 96 c.p.c. o alle forme di astreintes, quali penalità di mora ex 614 bis c.p.c. e 114 c.p.a.)
La certezza del diritto è dunque garantita solo applicando pedissequamente la norma di legge.
Le altre soluzioni ne minano la stabilità dalle fondamenta.
Un altro caso speculare all’istituto della caparra confirmatoria (che reca con sé le medesime problematiche) è quello dell’usura sopravvenuta.
L’usura è, come noto, la pratica consistente nel fornire prestiti a tassi di interesse elevati: con maggior impegno esplicativo, è definito usurario il tasso di interesse che supera le soglie stabilite dalla legge.
L’usura sopravvenuta può verificarsi in due casi.
In primis, in relazione ai contratti stipulati prima dell’introduzione della legge 7 marzo 1996, n.108, quando le parti non potevano avere contezza del successivo tasso soglia che sarebbe stato imposto dal legislatore(con interpretazione autentica) e hanno contrattualmente stabilito la corresponsione di interessi oltre il predetto tasso. Laddove tali contratti risultino ancora in corso di esecuzione in seguito all’introduzione della legge 7 marzo 1996, n.108, essi integrano un’ipotesi di usura sopravvenuta.
La seconda ipotesi è relativa ai contratti stipulati dopo l’introduzione della legge 7 marzo 1996, n.108, dove l’usura sopravvenuta può configurarsi a causa della fluttuazione nel tempo del tasso-soglia stabilita dalla predetta legge. Il tasso soglia, infatti, viene ricalcolato periodicamente sulla base delle rilevazioni trimestrali dei Tassi di Interesse Effettivi Globali Medi (TEGM).
Ora, pensare ad una invalidità del contratto viziato da “nullità sopravvenuta” è un errore di sistema:la nullità è genetica, non può essere sopravvenuta.
Si potrebbe pensare, allora, al rimedio della inefficacia : soluzione a discapito, però, del mutuatario che vede, in questo modo, svanire gli effetti del contratto.
Ed ecco che rientrano prepotentemente in gioco i principi: applicando il principio di solidarietà sociale in combinato disposto con la clausola di buona fede e correttezza, si può riequilibrare il tasso usurario e quindi il contratto.
Ed è quello che ha tentato di fare, ex pluribus, il Collegio di coordinamento bancario (l’equivalente delle Sezioni Unite, per la Cassazione), in un noto caso di usura sopravvenuta.
Resta il vulnus alla certezza del diritto.
Come espone brillantemente autorevole dottrina (Natalino Irti), facendo propria l’ elaborazione primigenia ed aurorale del sociologo Max Weber, contro la clausola generale ed i principi si infrange l’esigenza di certezza dettata dallo sviluppo capitalistico, la quale pretende che sia garantita la calcolabilità e la prevedibilità degli effetti degli atti dell’ “homo oeconomicus”, a tutela degli investimenti, dei traffici e delle relazioni commerciali.
In una breve parentesi trasversale, la stessa prevedibilità e accessibilità( forseeability e accessibility) della norma violata che richiede, a gran voce, la Cedu per garantire la “calcolabilita’” della pena.
V’è da dire che, a fronte di un innegabile ferita alla certezza del diritto, il ragionamento “per principi” permette, però, la creazione di una regolazione flessibile e puntuale modellata sulla fattispecie (di cui, non a caso, se ne denuncia la “crisi” proprio a partire da uno dei suoi ideatori).
«Le esigenze dei casi valgono di più della volontà legislativa e possono invalidarla» si legge nella costruzione del “diritto mite” del prof. Zagrebelsky, col quale però alcuni autori polemizzano(si parva licet componere magnis) per la sua tranciante idea di ragionevolezza come giustizia sganciata, quasi totalmente, dal dato positivo e rivolta a far prevalere i principi sulla legge.
Il delicato tema del sindacato del giudice sull’equilibrio contrattuale si manifesta solo a partire dal vigente codice del 1942 (per ipotesi tassative e a determinate condizioni processuali) ma è con l’influsso del diritto comunitario, oggi unionale, che se ne è, decisamente, ampliato l’ambito(si pensi ai contratti asimmetrici tra professionisti e consumatori).
Il contratto iniquo, come sancito dalla “Commissione Lando” di stampo sovranazionale, sarebbe dunque nullo per violazione dei principi di solidarietà sociale, correttezza e buona fede.
Tali affermazioni valoriali vietano di approfittare di una qualsiasi condizione di vulnerabilità in cui versi la controparte.
In conclusione, sull’altare degli interessi in gioco vi è, da una parte, la tutela degli investimenti e la prevedibilità delle conseguenze(pregiudizievoli o favorevoli) scaturenti da un negozio giuridico che solo un apparato normativo tassativamente determinato può garantire; dall’altra le ragioni di giustizia, di equità e di correttezza tra le parti che permeano l’intero tessuto sociale e giuridico, che solo la plastica idea “per principi” delinea.
La certezza del diritto impone una aderenza formale e sostanziale alla littera legis; l’esaltazione dei principi permette invece di discostarsene.
Prima ancora di richiedere a gran voce una presa di posizione netta, resta il dubbio, attuale, di un’ incoerenza sistematica fautrice di giudizi contrastanti.
AVV. MAURO CASILLO