“Flat tax” un fallimento all’italiana

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“Cum grano salis”, il latini erano soliti ripeterlo atti ad indicare l’uso della razionalità nei proclami e nelle azioni importanti. Tuttavia sembra che questa locuzione sia stata ampiamente tralasciata da qualche anno a questa parte, è il caso della “Flat tax”. La tanto attesa rivoluzione fiscale/tributaria, che, in teoria, doveva stravolgere l’intero assett imprenditoriale favorendo una politica economica di espansione puntando al ribasso della pressione fiscale, è miseramente fallita sotto all’enorme peso di “Quota 100” e “Reddito di cittadinanza”. Si è preferito accontentare una meno ampia platea di votanti a scapito di una manovra fiscale che avrebbe potuto fare la differenza con un ritorno delle risorse investite nel medio e lungo periodo.

Come si è detto la Flat Tax, che avrebbe dovuto coinvolgere l’intera platea dei contribuenti, non vedrà mai luce. Anche per il 2019 la pressione fiscale resterà quindi invariata, ferma al 42,4% del Pil (Prodotto Interno Lordo).

Vediamo nel dettagli come avrebbe potuto operare la misura economica suddetta e quale impatto avrebbe avuto nell’economia reale.

 

I titolari di Partita Iva

A beneficiarne sarebbero stati esclusivamente i titolari di Partita Iva (imprenditori, commercianti, artigiani, artisti e professionisti) con redditi ragguagliati ad anno non superiori a 65.000 euro: è questa, infatti, la soglia massima decisa dall’Unione Europea con cui ha autorizzato l’Italia ad avvalersi, per il 2019, del regime di favore delle piccole Partite Iva con l’applicazione di un’imposizione secca del 15% (5% per i primi 5 anni di attività).

Dal 2020 il regime contributivo doveva essere esteso ai contribuenti con ricavi/compensi fino a 100.000 euro, ma con alcune differenze:
il reddito andava determinato nei modi ordinari;
la tassazione sarebbe stata un po’ più onerosa (l’aliquota è fissata al 20%);
non era previsto l’esonero dall’obbligo della fatturazione elettronica.
Non si trattava di una nuova disciplina, ma dell’ampliamento e adattamento del già esistente regime forfettario per professionisti e imprese di dimensioni ridotte con una sostanziale riduzione degli adempimenti fiscali. Con l’innalzamento del limite dei ricavi per l’accesso, si calcola che avrebbero potuto fruirne circa 800.000 contribuenti, superando la metà di tutte le imprese individuali e dei professionisti.

In base ai dati resi noti dall’Amministrazione Finanziaria, più del 65% delle persone fisiche titolari di reddito d’impresa dichiara ricavi inferiori a 65.000 euro e addirittura il 75% dei lavoratori autonomi percepisce compensi annui al disotto di detta soglia.

 

Il Bancomat dei pensionati

Sacrificata, dunque, la vera Flat Tax, la tentazione di mettere le mani in tasca ai pensionati resta. Fra i capitoli più caldi della riforma previdenziale prevista nella Legge di Bilancio 2019, c’è il taglio alle pensioni d’oro.

Al momento, il meccanismo più semplice potrebbe essere un contributo di solidarietà per qualche anno da parte dei pensionati con pensioni al di sopra dei 90.000 euro l’anno, con una soglia del taglio da 4.000 a 5.000 euro netti mensili e con l’esenzione che per legge o per altri motivi gli interessati sono stati obbligati a lasciare il lavoro prima dell’età della vecchiaia (donne dirigenti “esodati,” militari).

È stata, poi, avanzata l’ipotesi di un abbattimento del 25-50% dell’adeguamento annuale al costo della vita (per il 2019 pari al 1,1%) per le pensioni superiori a 2.500 euro netti mensili, colpendo una platea di circa 2 milioni di pensionati. L’obiettivo dell’intervento sarebbe quello di incassare circa 300 milioni di euro l’anno.

Da oltre 20 anni sulle indicizzazioni delle pensioni ci sono stati molti interventi contraddittori e con l’unico scopo di produrre risparmi non finalizzati a sostenere il sistema previdenziale.

Le pensioni in alcuni periodi non hanno ricevuto la perequazione o hanno subìto differenti indicizzazioni con una riduzione strutturale non più recuperabile di quasi il 30% del loro potere d’acquisto.

Oltre a subire l’erosione con l’inflazione del proprio tenore di vita, i pensionati subiscono anche una tassazione più pesante rispetto ai lavoratori dipendenti.

A fronte, per esempio, di un reddito di 15.000 euro l’anno sullo stipendio l’Irpef dovuta è pari a 1.886 euro mentre sulla pensione l’imposta sale a 2.153 euro con una differenza di 267 euro, e ciò provocata dalla mancanza, per i pensionati, della prevista detrazione da lavoro dipendente (vedi Tabella A).


Senza contare, poi, la mancata estensione sempre ai pensionati del bonus Irpef di 80 euro mensili concesso, solo ai dipendenti dal precedente governo “Renzi”.

Guardando agli altri Paesi Europei si scopre anche che i pensionati vengono tassati molto meno. Su una pensione pari a tre volte il trattamento minimo (19.789 euro) l’Italia ha la tassazione più alta d’Europa (vedi Tabella B).

A chiudere definitivamente in discorso “flat tax” sono bastate le parole del neo-ministro dell’Economia Gualteri: “Non la faremo mai. Dava tanto a chi ha di più, mentre noi siamo il governo degli asili nido, degli investimenti e della riduzione delle imposte ai più deboli. Era ingiusta, sbagliata, insostenibile e incostituzionale perché violava la progressività, oltretutto alla base del modello sociale europeo insieme al welfare”.

Sono quindi evidenti le posizioni antitetiche tra il primo e secondo Governo Conte, se precedentemente si voleva favorire una politica di investimenti e detassazione con un’imposizione unica, ora, il “Conte Bis” cassa in maniera perentoria la misura, declassandola ad una concezione di iniquità per i contribuenti. Parola e decisioni ai nuovi Tecnici di “Palazzo delle Finanze”

 

Nicola Di Leo