Il risarcimento senza danno
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Il diritto soggettivo, valore immanente previsto per ogni consociato, è la posizione giuridica di vantaggio che spetta ad un soggetto relativamente ad un bene, che si estrinseca nel potere di disporre e godere del bene medesimo senza limiti.
L’endiadi composta da “disposizione e godimento”, non sempre rappresenta un’unica situazione giuridica oggetto di tutela.
Un diritto può essere leso nella sua indisponibilità senza recare un danno al godimento.
L’ordinamento accorda tutela espressa ai soli casi di danno ingiusto che limiti il godimento del bene.
In una visione pan-aquiliana, non sembra esserci spazio per la lesione del mero diritto alla disponibilità del bene.
Per ciò che interessa ai fini della presente trattazione(si conceda, qui, un rimando ad un mio scritto:”la Certezza del diritto”):” il risarcimento del danno (“indemnitas”) è la valutazione della diminuzione patrimoniale (“deminutio patrimonii”) data dalla somma tra la stima del bene danneggiato (“rei aestimatio”) e l’insieme delle utilità che il soggetto avrebbe conseguito se il fatto dannoso non si fosse verificato (“id quod interest” ) che consistono non solo nel danno emergente ma anche nel lucro cessante (“constat non solum ex damno dato, sed etiam ex lucro cessante”).
Una posta risarcitoria che preveda una attribuzione patrimoniale esorbitante il ripristino dello status quo ante è nulla.
La funzione del danno è ripristinatoria, risarcitoria.
Si pensi, però, ai casi in cui non vi sia un danno ma un mero mancato profitto, ossia una limitazione alla disponibilità di un diritto soggettivo.
Tizio e Caio sono comproprietari di un medesimo bene. Tizio, all’insaputa di Caio, comportandosi “uti dominus”, concede in locazione il bene a Sempronio trattenendo per sé l’intero ammontare dei canoni percepiti.
Caio lamenta il mancato profitto della metà del canone locatizio. Non vi è stato alcun danno, ma una mancata corresponsione di un utile di guadagno.
Sgombrando immediatamente il campo da qualsiasi dubbio, non si tratta di una condotta penalmente rilevante in quanto l’appropriazione indebita del canone locatizio tra comproprietari, non configura una violazione della destinazione di scopo della somma di denaro; né tanto meno” risulta sufficiente ad integrare la fattispecie di reato, prevista dall’art 646 c.p., il semplice inadempimento all’obbligo di restituire somme di beni fungibili, nella specie il denaro, in qualunque forma ricevute”(Cass. n. 24857 del 2017).
Come spiega incisivamente la Corte, il denaro può essere oggetto di interversione nel possesso e conseguente appropriazione indebita solo quando sia consegnato dal legittimo proprietario ad altri con specifica destinazione di scopo che venga poi violata attraverso l’utilizzo personale da parte dell’agente; nel caso di specie non vi è alcuna violazione del vincolo fiduciario:Tizio non dispone del denaro consegnato da Caio ma è solo inadempiente, nei confronti di costui, di una parte degli utili.
Quale tutela civilistica, invece, predispone l’ordinamento per la giusta corresponsione del profitto? Caio non ha subito alcun danno ingiusto, né alcun depauperamento,ma lamenta un mancato arricchimento. Può’ accordarsi un risarcimento senza danno?
La sistematica dell’ordinamento disvela un eccessiva polarizzazione verso il” danno”ed una tutela priva di addentellati normativi per il” mancato profitto”.
La soluzione pretoria “stressa” il dato normativo per trovare nella gestione, in questo caso abusiva, dell’affare altrui (“negotiorum gestito”) una tutela assimilabile al contratto di mandato.
Come afferma la Cassazione in una recente Sentenza dell’ottobre 2019 n. 25433: “la locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione d’affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra cui quella di cui all’art. 2032 c.c., onde, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, in forza del combinato disposto dell’art. 2032 c.c., e art. 1705 c.c., comma 2, conseguentemente esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota del canone corrispondente alla sua quota di proprietà indivisa”.
Il “vulnus” alla disponibilità del bene non ha recato alcun ammanco patrimoniale; di talché’ la Corte di merito e quella di legittimità hanno ricostruito la fattispecie che ci occupa nei termini di una gestione d’affari altrui con mancanza di espressa proibizione, in quanto artatamente celata(“prohibitio domini”) in assenza del contitolare(“absentia domini”) ed utilmente iniziata (“utiliter coeptum”) con conseguente obbligo di portarla a termine e di ratificarne la gestione, stante la sua abusivita’, onde addivenire ad una contrattualizzazione sulla falsariga del contratto di mandato (“actio mandati”).
La finzione di diritto che si pone in atto, non nasconde il problema del superamento del limite del “quantum” risarcibile del danno.
In un’ottica economica e di ordine pubblico la funzione risarcitoria del danno è tesa a mantenere un equilibrio commerciale.
Prevedere una posta reintegratoria che superi lo stato economico precedente del presunto danneggiato, altera il mercato.
Come spiega apoditticamente il Mommsen(giurista e storico del secolo scorso), nel suo “Zur lehre von dem interesse” il danno è dato dalla differenza tra la situazione in cui un soggetto si trova a seguito del fatto ingiusto e quella in cui si sarebbe trovato se quel fatto non fosse mai accaduto (si tratta della c.d.”Differentheorie”:teoria differenziale).
Prevedere una attribuzione patrimoniale senza danno, significa rivoluzionarne ontologicamente l’essenza.
Non si tratta di una mera questione teorica, ma di una asserzione dai precipitati applicativi di non poco conto. Estendere la risarcibilita’ del danno oltre l’aspetto reintegratorio vuol dire accogliere tutta una serie di corollari.
Tra cui l’idea che il danno possa essere anche punitivo. Si può attribuire ad una parte di risarcimento (oltre quella prevista per ripristinare la situazione iniziale) un valore punitivo che reprima e stigmatizzi la condotta colposa o dolosa del danneggiante quantificandola in una somma di denaro forfettaria?
Ad aumentare il caos interpretativo vi è l’indirizzo recente della Corte di Cassazione che ammette il riconoscimento automatico (un tempo si sarebbe parlato di “delibazione”o”exequatur”) delle sentenze straniere che stabiliscano un profilo di danno esorbitante la funzione reintegratoria (c.d. “punitive damages”) prevedendo l’esecuzione di tali provvedimenti giurisdizionali nel nostro Paese.
L’unico limite sarebbe il contrasto coi principi costituzionali che designano l’ordine pubblico. Se ne ammette pacificamente la delibazione ma non se ne riconosce l’ applicazione diretta all’interno dell’ordinamento.
Vi sono in realtà, degli indici presuntivi che farebbero pensare ad una espansione dei confini del danno all’interno della nostra sistematica di norme, ma si dubita fortemente che possano elevarsi a principi generali.
In questa schizofrenica descrizione dell’ “actio finium regundorum” del danno, risulta problematico inserirvi il concetto di mancato profitto.
Sembra forzata e macchinosa l’idea, seppur innovativa e solutoria, di applicare al comproprietario gerente, Tizio, la norma sulla gestione dell’affare altrui; garantendo al gerito, Caio, la possibilità di confermare quanto messo in atto dal comproprietario tramite ratifica.
Resta sullo sfondo l’idea di aver accordato ad un utile il risarcimento previsto per un danno, seppur ricondotto ad una fattispecie idonea a produrre una obbligazione.
La conferma di questo filone interpretativo si è avuta con la disciplina sul diritto d’autore e quella sul diritto di proprietà industriale che, paradigmaticamente, al comma 3 dell ‘art 125 afferma :
“in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”.
La norma equipara, “expressis verbis”, il mancato profitto (rectius: gli utili) al risarcimento del danno.
Si assiste, dunque, ad una rivoluzione copernicana seppur relegata ad una legge speciale e non in una norma del codice civile: si prevede una posta risarcitoria esorbitante la perdita economica.
Un risarcimento senza danno.
Occorre in conclusione ricordare che la funzione ripristinatoria del danno, la cui quantificazione non può esorbitare dal ripristino della condizione ad esso precedente, trova un addentellato normativo nella norma di rango Costituzionale sancita dall’art.23 il quale prevede che: “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
La legge disciplina compiutamente ed esaustivamente la responsabilità per fatto illecito: è auspicabile “de iure condendo” un ampliamento delle fattispecie che regolino il mancato profitto e la perdita degli utili sulla falsariga delle leggi speciali in materia di proprietà industriale e di diritto d’autore.
È vero, infatti, che l’orientamento maggioritario diffida dell’ampollosa pratica del “legislatore ridondante” secondo cui non vi è necessità di ribadire un concetto già normativizzato(nelle suddette leggi speciali , nel caso di specie), in quanto la ripetizione logora la forza persuasiva dei messaggi e si giustifica solo se si aggiunga un” novum”; ma la collocazione topografica in una legge speciale (diritto d’autore ed industriale) non sembra il luogo più adatto a sancire un principio generale.
Sembra, ad ogni modo, forzata ed elusiva delle regole sul risarcimento la configurazione,nel caso di specie, di una obbligazione da gestione del negozio altrui, in quanto priva del requisito tassativo dell’impossibilità giuridica di provvedervi autonomamente: la fattispecie della “negotiorum gestio” nasceva infatti, nella Roma del 300 a.c.,, dalla difficoltà del titolare di una situazione giuridica soggettiva di curare una attività perché, ad esempio, impegnato in un viaggio con tempistiche enormemente diluite rispetto alla modernità.
Ad oggi pare si possa parlare di lecita gestione del negozio altrui solo in caso di incapacità giuridica temporanea: non di certo per impossibilità dovute alla lontananza, facilmente superabili con i mezzi di trasporto e le tecnologie odierne.
Il comproprietario, nel caso di specie, non gestisce un affare altrui perché animato da scopo filantropico, ma al fine di arricchirsi ingiustamente: risulta, perciò, forzata l’interpretazione che estende alla “negotiorum gestito” il caso che ci occupa.
Avv. Mauro Casillo